Insieme

Umanità guarita, segno e sogno di ciò che Dio vuole

«Per l’Italia eravamo slavi, per gli Slavi eravamo italiani, per la verità non eravamo nulla».

Sono le parole di Piero Tarticchio, costretto all’esodo, nel 1947, dai partigiani di Tito, che uccisero e gettarono nelle foibe sette suoi parenti, tra cui il padre.

Essere nulla, come le migliaia di profughi respinti in mare, o ai confini dell’Europa sui Balcani.

Essere nulla, come i tanti bisognosi (anziani soli, malati incurabili, disabili, stranieri, poveri, carcerati, vittime di bullismo e di violenze domestiche, lavorative, ragazzi rinchiusi nella loro solitudine e rabbia) che non ricevono adeguata assistenza sanitaria, legale o sociale, o spirituale, e vivono come invisibili nei nostri paesi, portando i loro drammi nel cuore, attendendo uno sguardo, un gesto di attenzione, che qualcuno si faccia carico di loro e li renda visibili.

Essere nulla, come i lebbrosi del vangelo di questa domenica, considerati dei morti viventi, pericolosi e infetti da tenere lontano da tutti e da tutto, ma non considerati nel loro dolore di essere esclusi dalla vita, di aver perso la gioia del vivere, nella solitudine che vieta a loro la bellezza delle relazioni, la gioia dei baci e degli abbracci; la normalità della vita di tutti i giorni…

Noi siamo figli di un tempo veloce: è la velocità che determina la nostra possibilità di incontro o di scontro con i nostri simili e, di questo, ne siamo un po’ tutti vittime e artefici.

Gesù, nel suo andare di villaggio in villaggio, nel suo spendersi tra la gente, rivela un Dio che non ha fretta, che cammina a piedi e trova il tempo di ascoltare, incontrare, prendersi cura di quanti vivono nelle periferie della vita oltre che delle città; muoversi lentamente è il solo modo per incontrare veramente le persone nella loro quotidianità, con le loro gioie, i loro sogni e i loro progetti, ma anche con le loro fatiche, malattie e solitudini.

Noi siamo con Gesù e come Gesù, per imparare a lasciarci incontrare dalle persone che ci cercano nella loro umanità, sentire con loro e come loro esigenze di solidarietà e di giustizia e, ascoltare il grido espresso o soffocato di quanti dicono: “Signore pietà!” (Lc 17,13).

Gesù non chiede chi sono: la loro storia viene dopo.
Essere colpevoli o innocenti non è indifferente, ma viene dopo l’accoglienza.
“Andate dai sacerdoti, presentatevi a loro …” (Lc 17,14).
Oggi dovremmo dire: «Presentatevi alle autorità» comunque si intendano, e rivendicate la vostra guarigione.

Gesù non sta glorificando il potere, semplicemente restituisce dignità ai lebbrosi del sistema.
Quando un bisognoso varca la soglia di un comune o di una chiesa, di una realtà di pubblico servizio, deve potersi sentire a casa sua e, della casa che è sua, sentirne i diritti e i doveri, altrimenti non guarisce.

Certo, le autorità non arrivano a tutti, nemmeno con il “custode sociale”.
Ma perché la solitudine dei bisognosi è la conseguenza, non il problema.
Il problema è l’individualismo che genera l’indifferenza.
Non si può delegare la cura.
Questo della cura è un fatto culturale: serve qualcuno che dica:
«Vieni, andiamo! Ti accompagno io».
“E mentre essi andavano, si ritrovarono guariti!” (Lc 17,14).

E’ necessario mettersi in cammino per ritrovare il senso pieno della vita.
La rassegnazione, l’apatia, la rinuncia facile, non sono virtù cristiane.
Pensare che tutto ci sia dovuto, quasi fossimo esentati e disabilitati all’impegno, non è una strada di guarigione.

Dio prova gioia per la gioia di quei lebbrosi, come prima aveva provato dolore per il loro dolore. Forse i nove non tornano, perché obbediscono a Gesù e vanno a presentarsi ai sacerdoti. Ma uno torna, travolto dallo stupore. Si ritrova guarito e realizza che non si tratta di un colpo di fortuna, ma di un tocco di grazia. E torna per ringraziare. E’ uno a cui non basta essere guarito, uno che chiede di essere salvato, segno e sogno di ciò che Dio vuole veramente per tutti. Umanità capace di essere benedizione per sé stessa, artefice del proprio bene, capace di prendersi cura di chiunque porta ferite nella carne o nel cuore perché nessuno è nemico, nessuno straniero, nessuno escluso da quel briciolo di umanità che ci rende tutti veramente e pienamente umani. Umanità salvata; dove si fanno sogni e progetti di vita buona e bella, dove Dio non è mai un dovere da compiere o precetti da osservare, ma è Uno senza del quale la nostra è una storia che soffre una forte mancanza di umanità.

don Andrea