Con la domenica delle Palme inizia la Settimana Santa o Autentica.
Abbiamo ancora vivo il ricordo struggente della Pasqua di due anni fa nell’assenza di riti, con le chiese vuote, ma non certo senza preghiera, senza fede. Abbiamo ancora vivo nelle orecchie e nel cuore il ricordo commovente dell’annuncio gioioso della Risurrezione che finalmente lo scorso anno è risuonato di nuovo nella notte di Pasqua. E quest’anno attendiamo impazienti il momento in cui ritrovarci ancora insieme nelle nostre chiese per rinnovare ancora il mistero della Passione, Morte e Resurrezione del Signore, per ricevere da Gesù risorto il dono della sua pace. Desideriamo ancora fare Pasqua, dopo l’esperienza travolgente e drammatica della pandemia che stenta a lasciarci, e dentro al clima di tragica incertezza che l’attuale guerra accende nei nostri cuori.
Desideriamo “fare” la Pasqua. È il medesimo desiderio di Gesù, che ripete a noi le stesse parole rivolte ai discepoli: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi». Quel giorno ha dato a Pietro e Giovanni l’incarico: «Andate a preparare per noi, perché possiamo mangiare la Pasqua». Gli chiesero: «Dove vuoi che prepariamo?» (Lc 22, 7-13). Gesù ha indicato loro una sala, grande e arredata, in cui radunare la famiglia dei suoi discepoli per la Pasqua. Da quella sera, la Chiesa ha sempre fatto memoria di Gesù, anche se non sempre il luogo del “Cenacolo” sono state le chiese, proprio come è accaduto due anni fa per la pandemia.
Sappiamo dalla testimonianza di Dionigi, vescovo di Alessandria intorno alla metà del terzo secolo, che sotto la persecuzione di Decio (249-251) i cristiani non poterono radunarsi nei luoghi di culto in occasione della Pasqua, ma non per questo rinunciarono a celebrarla:
“Dapprima siamo stati esiliati e da tutti perseguitati e caricati a morte; tuttavia abbiamo celebrato anche allora la festa pasquale. Ogni luogo, dove si soffriva, fosse esso un campo, un deserto, una nave, una locanda, un carcere, diveniva come un tempio per le assemblee sacre; i martiri perfetti celebravano una festa più perfetta di tutte, partecipi del convito celeste”
(Eusebio, Storia ecclesiastica VII, 22, 4)
Quell’anno la Pasqua è stata celebrata non in luoghi di culto, ma in ogni luogo dove si soffriva. La forza pasquale di Gesù non passò attraverso i riti, ma direttamente agì nella carne tribolata degli uomini e delle donne che invocavano il suo nome. In questi due anni, ci siamo resi conto come non mai, che sempre, ovunque c’è qualcuno che soffre o è nella tribolazione, la Pasqua chiede di essere celebrata anche fuori dalle chiese. La pandemia e la guerra in atto ce lo fanno constatare. Una grande croce collettiva abbraccia l’umanità da un capo all’altro della terra e tutti i sofferenti “fanno pasqua”: non solo chi crede in Cristo o comunque è religioso, perché “dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale” (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes n. 22).
Entriamo, dunque, nella Settimana Santa accompagnando Gesù acclamato dagli Osanna della folla che da lì a poco griderà a Pilato: “Sia crocifisso”. È il chiaroscuro della Pasqua in un intreccio di acclamazioni e di rifiuto, di festa e di lutto, tanto vicino ai giorni che stiamo vivendo tra mestizia e speranza. Entriamo nella Settimana Santa chiedendo una volta di più di saper uscire dalle celebrazioni pasquali, come da ogni Eucaristia, con gli occhi capaci di vedere in ogni persona sofferente nell’anima e nel corpo uno dei tanti crocifissi di ogni ora e di ogni tempo, che attendono che noi ci diamo da fare perché anche loro possano giungere al mattino di Pasqua, in una vita rinnovata. E’ così che i riti che celebriamo diventano efficaci segnando la storia e trasfigurando le nostre esistenze: è presso di loro, che Gesù vuole che prepariamo la Pasqua.
don Andrea